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Santo Stefano

Impossibile non notare l'isolotto di Santo Stefano, nel corso di una visita a Ventotene. La sua sagoma imponente, coronata dalla struttura chiara del carcere borbonico, diventano subito lo sfondo familiare di un bagno a Cala Nave oppure ad una passeggiata nel porto. La nascita dell'isola, ci spiegano i geologi, dovette avvenire all'incirca nello stesso periodo in cui le eruzioni crearono Ventotene. Sul basamento di roccia lavica che emerse dall'acqua, anche nel caso di Santo Stefano i millenni portarono all'accumulo di altro materiale vulcanico più leggero e friabile. Scarsamente frequentato in epoca romana, che ha lasciato solo la piscina della Vasca di Giulia e pochi resti di muratura, l'isola fu rifugio di eremiti e poi divenne un'appendice agricola della vicina Ventotene. La forma di Santo Stefano Ú grosso modo circolare, con uno sviluppo delle alte coste che sfiora i due chilometri, la superficie non supera i 29 ettari e la massima altezza sul livello del mare Ú di 84 metri. La presenza di scogliere tutto attorno a Santo Stefano ha sempre reso difficile l'approdo per la mancanza di un punto riparato. Il carcere borbonico L'idea di utilizzare Santo Stefano come luogo di detenzione risale all'epoca della colonizzazione borbonica dell'arcipelago. La forma a ferro di cavallo della struttura rispondeva a varie esigenze. Anzitutto psicologiche: i reclusi avevano vista solo verso l'interno e la forma tondeggiante, come l'isola stessa, dava l'idea di un arroccamento completo. Poi anche pratiche, in quanto la struttura - detta a forma di panoptikon - permetteva a pochi sorveglianti posti nel centro di controllare tutte le celle contemporaneamente. Per accedere al carcere, si attraversa un portone (sopra il quale una lapide ricorda la detenzione dell'antifascista Sandro Pertini) e si incontra un blocco di costruzioni che erano adibite ai servizi. Si tratta di magazzini, laboratori dove i detenuti potevano lavorare, cucine e corpo di guardia. L'impressione, nel momento in cui si varca l'ultima porta verso il cuore del carcere, Ú molto forte. La struttura circolare Ú imponente, con al centro un padiglione dove veniva detta la messa dal cappellano del carcere e dove si somministravano le punizioni corporali. In origine, le celle erano 99 (33 per ogni piano) e misuravano 4,50 x 4,20 metri. Dopo un breve periodo di "normalità" nel periodo che seguì il fallimento della Repubblica Napoletana del 1799 il carcere iniziò ad accogliere un numero sempre crescente di detenuti, tra cui molti "politici". Tra questi, Raffaele Settembrini e suo figlio Luigi e Silvio Spaventa. Alle Ricordanze della mia vita di Luigi Settembrini dobbiamo una descrizione accurata della spietata routine del carcere: "ogni cella ha lo spazio di circa 16 palmi quadrati e vi stanno nove, dieci uomini e più in ciascuna. Sono scure e affumicate " infatti i detenuti potevano cucinare in cella "e di aspetto miserrimo e rozzo." Per comprendere le condizioni di vita del penitenziario, si può citare un dato impressionante: in nove anni, verso la metà dell'Ottocento, morirono a Santo Stefano 1.250 detenuti, di cui solo 200 di morte naturale. Nel 1892, le celle vennero divise a metà ed il numero dei detenuti scese ad uno per cella; nello stesso periodo vennero costruite mura che dividevano il cortile in spicchi per evitare il contatto tra i detenuti politici ed i comuni. In quest'epoca fu aggiunto alla struttura un anello esterno di altre 75 celle: la capienza del carcere divenne di circa 300 detenuti invece degli 800-900 dell'epoca borbonica. Il 29 luglio del 1900 l'anarchico Gaetano Bresci uccise a Monza re Umberto I. Catturato, venne inviato a Santo Stefano e l'anno dopo fu impiccato dai secondini nella sua cella. Durante il fascismo, nel carcere furono rinchiusi molti oppositori del regime, tra questi Pertini, Scoccimarro e Pugliese che, probabilmente, tra queste mura fece la stessa fine di Bresci. Dopo la II Guerra Mondiale, e fino alla sua chiusura, il penitenziario di Santo Stefano fu utilizzato come ergastolo e, spesso, coloro che ricevevano la grazia e ottenevano la fine della pena si trasferivano a Ventotene dove potevano continuare ad esercitare i mestieri appresi in carcere.

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